Jojo Rabbit.

Il nuovo delizioso gioiello, per e con ragazzi, di Waititi che con leggerezza, ironia e poesia affronta il periodo buio del nazismo.

di EMILIANO BAGLIO 16/01/2020 ARTE E SPETTACOLO
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Jojo rabbit, il nuovo film di Taika Waititi, può essere visto come l’ideale conclusione di un’ipotetica trilogia formata da Boy (2010), Selvaggi in fuga (2016) ed appunto quest’ultimo.

Tutte e tre le pellicole vedono protagonisti dei bambini (tra i 10 ed i 13 anni) con caratteristiche comuni.

Sono sostanzialmente degli emarginati, hanno genitori assenti (Boy e Jojo) oppure sono addirittura orfani (il Ricky Baker di Selvaggi in fuga) e tutti cercano conforto in figure che sostituiscano quei genitori assenti, che si tratti di una capra (Boy) o di Tupac (Rocky Baker).

Waititi, inoltre, adotta il loro punto di vista, conservando nelle sue opere quella capacità di stupirsi dinnanzi alle piccole cose, come le stelline pirotecniche in Boy, tipiche dell’infanzia.

I suoi sono racconti picareschi dove tutto diventa una magica avventura, che si tratti della vita nei boschi (Selvaggi in fuga) o del campo di addestramento di Jojo rabbit.

Ovviamente, come si addice a dei racconti di formazione, dietro la leggerezza e l’ironia vengono affrontate tematiche serie.

Da questo punto di vista con il suo ultimo suo lavoro il regista compie un deciso salto di qualità puntando ancora più in alto.

Perché stavolta siamo in un’epoca storica precisa, la seconda guerra mondiale, e Jojo è un piccolo fervente nazista che ha come amico immaginario nientemeno che Hitler stesso (interpretato dallo stesso Waititi).

La sua fede cieca, tuttavia, verrà messa in discussione quando scoprirà che la madre (una superlativa Scarlett Johansson) tiene nascosta in soffitta una ragazza ebrea (Thomasin McKenzie).

L’incontro con il diverso porterà in nostro protagonista a riconsiderare le sue idee anche perché, in fondo, data l’assenza del padre, l’unico suo vero desiderio è sentirsi parte di un gruppo, nello specifico la gioventù Hitleriana.

Jojo rabbit, come gli altri titoli citati, è una girandola continua di intuizioni e trovate geniali con le quali l’autore mette in ridicolo un’intera epoca storica.

A cominciare dall’assurdo campo di addestramento delle giovani reclute, comandate da un’irresistibile Sam Rockwell che, pur rimanendo fedele alla sua idea, sarà capace di un piccolo grande atto di eroismo.

Waititi spinge l’acceleratore sull’ironia, con un uso, ancora una volta, perfetto della colonna sonora a cominciare dai titoli di testa accompagnati da I want to hold your hand dei Beatles utilizzata in chiave volutamente grottesca.

Si tratta di un umorismo tipicamente british che, in alcuni momenti, ricorda gli sketch dei Monty Python come nella sequenza in cui, durante una perquisizione da parte della Gestapo, viene ripetuto ossessivamente il saluto Heil Hitler.

Persino il Führer in persona viene ridicolizzato, così come le assurde ipotesi sugli ebrei capaci di controllare le menti e dotati di corna.

Il fulcro del film, però, sotto questa scorza è decisamente tragico e non lesina momenti di grande impatto (non vogliamo svelare di più) come l’abbraccio disperato a quelle scarpe ed il maldestro tentativo di allacciarle in un ultimo gesto di amore filiale.

 Il messaggio che Waititi consegna ai ragazzini è chiaro e limpido, l’amore, la poesia, l’apertura verso l’altro e la scoperta che insieme si può essere più forti ed affrontare un domani incerto, tutto ciò è l’unica arma che possediamo contro il fanatismo e gli orrori di ieri e di oggi.

Perché, come cantava David Bowie “Li possiamo battere, solo per un giorno. Possiamo essere eroi, solo per un giorno”.
Per poi, finalmente, ballare liberi in un finale indimenticabile nell’ennesimo piccolo gioiello, struggente, ironico, poetico e delizioso di un piccolo grande regista che ogni volta ci fa riflettere ed al tempo stesso ci fa uscire dal cinema col cuore più leggero ed un sorriso idiota stampato sulla faccia.

EMILIANO BAGLIO


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